Rosa, Olindo e noi.... L'intervento di Carlo Alberto Romano
Un nuovo contributo di Carlo Alberto Romano alla nostra newsletter. Docente di Criminologia all’università degli Studi di Brescia dove è prorettore all’Impegno sociale per il territorio, Carlo Alberto Romano è anche presidente dell’associazione di volontariato Carcere e Territorio.
C’era qualcosa di incomprensibile, almeno ai miei occhi, nella lunga fila di giornalisti, sedicenti giornalisti, esperti, sedicenti esperti e soprattutto curiosi, oggettivamente tali, che stazionava innanzi al palazzo di giustizia di Brescia, il 1° marzo.
La richiesta revisione del processo terminato con una condanna nei confronti dei coniugi ritenuti gli autori della cd “Strage di Erba” non può, di per sé, giustificare una così elevata dimensione partecipativa.
Anche perché se compariamo le ben più esigue file di accesso ai più recenti seggi elettorali con quella sopradescritta, mi viene da chiedermi per quale motivo molti miei concittadini e connazionali siano più interessati alle vicende esistenziali di Rosa e Olindo che non alle proprie…ma mi rendo conto che il discorso, qui, si allontanerebbe troppo dal punto di partenza e forse lo stesso Zanardelli, silenzioso testimone della fila innanzi al tribunale, potrebbe apparire disorientato.
Torniamo quindi alla gente in fila, che attende di poter assistere all’udienza processuale. In cosa spera? Escluderei autografi di Rosa e Olindo, anche se neppur così perentoriamente; clamorose emergenze in grado di sovvertire le conoscenze criminologiche accumulate da Lombroso a oggi? Dubito…. Ambìti ingaggi in improvvisati casting per popolari fiction sull’ennesimo processo del secolo? Mah…forse.
Francamente temo che, tolta una quota parte, a mio giudizio comunque già fin troppo estesa, di giornalisti presenti per dovere professionale, tutti gli altri fossero semplici curiosi, che recavano in sé la stessa atavica curiosità che mosse Caravaggio e Artemisia Gentileschi ad assistere alla pubblica esecuzione della sventurata Beatrice Cenci; ma di quella esperienza, i due geniali artisti, seppero far tesoro, trasferendone gli aspetti di drammatico pathos in alcune delle magistrali opere cui seppero dare vita.
Dagli avventori in fila a Brescia abbiamo sentito, al più, qualche non certo memorabile considerazione offerta ai microfoni del TG3.
Il punto è che, se sono lì, qualcosa non funziona più nel sistema di giustizia; un sistema che ha sempre assicurato alle aule giudiziarie la primazia nella celebrazione dei processi ma che, oggi, vede un avvicendamento di leadership fra la sentenza pronunciata dal giudice e le innumerevoli, superficiali, fuorvianti e patetiche sentenze emesse in rete, sui giornali, in televisione. E se c’ero, posso dire la mia…
Processi sommari, informali, del tutto improbabili, riempiono la scena mediatica e conquistano i primati dell’attenzione. Tanto più inopportuni quanto più irrituali, eppure così apprezzati. I soliti noti, habitués dei salotti televisivi, che in tempi di pandemia sciorinavano impunemente presunte competenze in virologia tali da consentir loro di discutere con scienziati di fama mondiale, figuratevi se possono aver ritegno ad affrontare il tema della motivazione retrostante a un fatto di sangue, soprattutto se apparentemente immotivabile.
Quanto tempo è trascorso dal meritorio ingresso delle telecamere di “un giorno in pretura” nelle aule giudiziarie? Tanto, certamente, e se il processo è diventato oggetto di interesse dello spettacolo, ha anche dovuto mutare forme; quelle tradizionali non bastano più e non assecondano le esigenze dello spettacolo stesso. E così anziché il rispetto delle regole ciò che conta è la conquista dell’audience e ogni strumento viene sdoganato in nome del successo editoriale, comprese le concessioni al cattivo gusto della narrazione o della visione esclusiva di fatti e persone, ovviamente a ogni costo.
Inutile dirsi che la invalsa tendenza alla polarizzazione fra innocentisti e colpevolisti, che ha sempre orientato i sentimenti del pubblico, con l’esasperazione spettacolare della narrazione giudiziaria si avvia verso esiti disastrosi per gli imputati, nei cui confronti improvvisati conoscenti e malfrequentati vicini di casa, dopo la frase di rito, “mai avrei immaginato”, rivelano invece impressionanti serie di autopercepiti presagi, che quasi viene da chiedersi come abbia potuto compiersi un delitto se così abili studiosi lo avevano intuito ben prima che accadesse. Ma tant’è.
E a noi che di “un giorno in pretura” abbiamo nostalgia, e che la fila per entrare ad assistere a un processo ci sbalordisce, non rimane che leggere Kafka. Se Egli ha saputo raccontare una intera vicenda processuale sviluppatasi senza che l’imputato ne conoscesse i motivi, anche il pubblico può non sapere tutto….
Carlo Alberto Romano
Brescia, 8 marzo 2024