Le baby gang? impariamo a conoscerle (e a chiamarle in modo diverso) L'intervento di Carlo Alberto Romano
Con questa newsletter Carlo Alberto Romano inizia a collaborare con noi. Docente di Criminologia all’università degli Studi di Brescia dove è anche prorettore all’Impegno sociale per il territorio, Carlo Alberto Romano è anche presidente dell’associazione di volontariato Carcere e Territorio. Lo ringraziamo sentitamente per aver accolto il nostro invito.
Sempre più frequentemente apprendiamo di episodi di conflittualità e violenza, coinvolgenti ragazzi e ragazze, percepiti e definiti, inopportunamente, almeno dal punto di vista criminologico, come baby gang.
Si tratta in realtà di aggregazioni, mutevoli quanto a dimensioni, con una tendenza alla mobilità negli spazi urbani, sia centrici sia periferici, del tutto sconosciuta alle vere gang, le quali possedevano, invece, come tratto distintivo proprio l’appartenenza a un territorio.
In questi gruppi l’età dei partecipanti va dai 12/13 anni ai 19/20 circa, il genere tendenzialmente è maschile (ma non sono estranee presenze di ragazze o addirittura, come accaduto proprio in provincia di Brescia, gruppi totalmente femminili) la lingua non sempre è l’italiano, come nel caso delle seconde e terze generazioni, simili sono le provenienze abitative, le storie di vita e alcuni elementi di costume, come il gergo, la musica trap e un certo abbigliamento. Frequente anche l’uso di sostanze. Gli scenari urbani in cui essi tendono a collocarsi sono quasi sempre i centri commerciali (soprattutto nei perimetri esterni), i luoghi circostanti le stazioni, i parchi, i giardini e alcuni punti del centro storico, solitamente in orario notturno. Il vero elemento di coesione, tuttavia, sono i social, usati come strumento di comunicazione, di autorappresentazione e di organizzazione della mobilità. Come emerge da una ricerca fatta da Università di Bologna e Regione Emilia Romagna, recentemente letta e apprezzata e nella quale ho riscontrato profonde similitudini con la nostra cronaca, il passaggio che tende a favorire le condotte devianti, risiede nella tendenza a voler documentare ed esibire in rete le condotte ritenute performative, ovvero quelle condotte che affermano una contrapposizione conflittuale con il mondo degli adulti e/o con i gruppi di pari avversati. Come fu nel caso degli episodi accaduti lo scorso anno, fra Desenzano e Peschiera.
La matrice conflittuale viene da lontano e spesso nasce nei nuclei familiari di provenienza o magari dalle pregresse, complicate, esperienze scolastiche. Anche il mondo del lavoro, se provato, si è mostrato con opportunità precarie e poco attrattive. La conflittualità con gli adulti riguarda soprattutto l’uso degli spazi pubblici, percepiti come strumento di affrancamento sociale da ruoli compressi e predeterminati e quindi simbolico “territorio di conquista”. Proprio la percepita esclusione da spazi di socialità e visibilità, a cui questi ragazzi invece ambiscono, potrebbe essere la chiave interpretativa dei loro comportamenti.
I controlli di polizia e le strategie preventive di sicurezza, solitamente ritenute imprescindibili di fronte all’allarme sociale innescato, non sembrano essere la risposta ideale. Certamente non possono essere l’unica risposta. Servono soprattutto percorsi di relazione, imperniati su conoscenza e dialogo, finalizzati a recuperare quella fiducia intergenerazionale che gli eventi pandemici hanno disintegrato. Percorsi, peraltro, che qualche amministrazione del nostro territorio ha, opportunamente, cominciato ad avviare, sfruttando le positive risposte del rapporto fra pari e dell’educativa di strada.
Carlo Alberto Romano
.
Brescia, 6 marzo 2023