Diserzioni
Scomparire. Deliberatamente, con determinazione.
Non per annullarsi, ma per realizzarsi, finalmente. Non per segnare una cesura nella propria vita, ma anzi per recuperarne l’unità riprendendone il filo che le vicende vissute, gli obiettivi rincorsi, le cadute nel conformismo avevano logorato, senza riuscire però a troncarlo: non ripetere, ma ripartire da ciò che di più vero è rimasto distinguibile nella propria vita.
Ma non sembra possibile, questo ritorno che è cambiamento, se non rinunciando alle relazioni che si sono tessute. Forse anche ai luoghi che si sono abitati.
Scomparire. Non per fuggire dagli altri, o negare il posto che occupano in ogni esistenza, ma per incontrarli davvero, finalmente.
Davide è un architetto: ne seguiamo le tappe dell’affermazione professionale, che inevitabilmente coinvolge la famiglia, fino al momento in cui un banale incidente suscita in lui un ripensamento che lo porta a intravedere in sé stesso un altro, più grande desiderio, che non gli è sconosciuto ma era, di fatto, finito con l’appannarsi, fin quasi a perdersi. Di qui la scelta, che la figlia Lucia, voce narrante che attraversa il romanzo, si prova a descrivere: “Non lo sapevamo ancora che uno può non esserci anche se è lì dove sono gli altri. La moglie, i figli. Nella stessa casa. Era scomparso, nostro padre, anche se c’era: non si poteva dire in altro modo. Era scomparso anche se, come mai era accaduto in passato, ci restava vicino, ogni giorno”.
Diversamente dal primo, il secondo protagonista, Cesare, libraio di vaste letture, ha sentito di dover lasciare la città in cui era sempre vissuto, per scomparire, ma senza andar lontano. Gli è bastato trasferirsi in una città a poche decine di chilometri dalla propria per sentirsi altrove. Sono ormai anni che vi conduce un’esistenza ritirata, austera e operosa, quando la sua strada incrocia quella di Davide, che dall’incontro, presto fattosi consuetudine, ricaverà una conferma decisiva della sua scelta di vita. Fino a condividere l’interesse per i diari alla cui cura Cesare dedica le proprie giornate. Si tratta delle carte di uno zio cui era stato molto legato, ma che era a sua volta scomparso molti anni prima, al tempo della sua prima adolescenza.
Si tratta del terzo protagonista, Luigi, che racconta la nuova vita che si è scelto in un paese della montagna appenninica, dove l’amicizia con un professore lì ritiratosi lo invoglia a cercare di tradurre in scrittura la propria esperienza, via via più ricca di relazioni con gli abitanti del luogo, ma anche con il mondo non umano che le grandi faggete progressivamente gli aprono.
Nel romanzo le tre storie, pur proponendosi in successione, si intrecciano in modo tale che quella che per prima si è svolta, in ordine di tempo, finisce con l’apparire come l’approdo delle altre due: l’avventura esistenziale di Luigi sembra rappresentare la realizzazione delle aspirazioni che Davide e, in modo e con esiti diversi, Cesare avevano coltivato.
L’ininterrotta domanda sul senso della propria vita rappresenta un tema di fondo, che si affianca tuttavia ad altri, come quello dello scrivere, terreno sul quale quella stessa domanda ha modo di esercitarsi, dando luogo a una narrazione che sperimenta registri diversi e risuona di echi letterari, talvolta espliciti, com’è nel caso della rilettura del Wakefield di Hawthorne, riferimento naturale di ogni racconto che metta in scena personaggi enigmaticamente votati alla scomparsa.
Brescia, 13 novembre 2024
Carlo Simoni
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